E’ un onore per me parlare in questa piazza storica, in questa splendida giornata del 25 APRILE così densa di significati e slanci morali e civili, davanti a donne e uomini il cui vissuto mi trasmette e trasmette a tutti noi profondo rispetto e amore per la Repubblica e per la nostra Costituzione.
Un 25 aprile che cade quest’anno nel segno del 150° anniversario dell’Unità nazionale, in un momento difficile per il nostro Paese. Sono sotto gli occhi di tutti le lacerazioni e le divisioni alimentate già da lungo tempo da importanti settori delle Istituzioni. In questo momento solo il Capo dello Stato pare reggere il timone di una nave traballante.
Le mai sopite spinte secessioniste, con il rifiuto anche dei simboli dell´unità, con un federalismo opaco e ambiguo, non preoccupano per il loro richiamo fuori dal tempo a piccole patrie territoriali. Preoccupano, soprattutto, per il rifiuto dei vincoli costituzionali di solidarietà. Così come l´attacco agli organi di garanzia istituzionale non preoccupa, per la sua evidente finalità di copertura di un potere personale. Preoccupa perché comporta in sé la disunione degli italiani: separati, anche questa volta, dal falso mito che il consenso popolare permetta l´uso illimitato del potere pubblico.
Oggi pertanto, dalla riflessione sull´unità è inscindibile quella sullo stato della Costituzione. Ancora una volta la percezione dei rischi per l´unità nazionale è intimamente intrecciata a quella dei pericoli per le libertà costituzionali.
Non è stato un bel vedere la sequenza dei distinguo, delle dissociazioni, da parte di diversi esponenti di governo e non solo, sull’ opportunità o meno di festeggiare il 17 marzo. Non è stato un bel vedere prima di tutto nei confronti dei giovani. Lavorando nel mondo della scuola ho avuto modo di cogliere lo smarrimento di tanti studenti che faticano a capire come, chi ricopre cariche pubbliche, chi giura sulla Costituzione, possa tranquillamente farne carta straccia, e rivendicare l’inutilità di riflettere sul percorso storico che ci ha condotto oggi ad essere un’Italia Unita e una Repubblica democratica.
Ma sulla scuola ritornerò tra breve. Vorrei prima fare una considerazione di carattere storico sul processo unitario e aggiungervi una breve riflessione etico – politica. Da un punto di vista storico, non c’è dubbio che il nostro Risorgimento ha elaborato un ideale di patria fondato, senza equivoci, sul principio della libertà civile e politica e sul rispetto della libertà degli altri popoli e delle altre nazioni. Le radici storiche di questo concetto di patria sono nel pensiero politico del Rinascimento e nell’Illuminismo.
Questa tradizione di pensiero interpreta l’amore della patria come amore della libertà e del bene comune che si traduce in cura e servizio. Mazzini spiegò a chiare lettere che vera patria è il territorio, l’associazione che garantisce il pieno rispetto dei diritti, compresi i diritti sociali che permettono agli esseri umani di vivere con dignità di cittadini.
Fra questa idea di patria e il nazionalismo che invoca quale valore predominante non la libertà ma l’omogeneità culturale, linguistica, religiosa o etnica di un popolo o l’affermazione della nazione nello scontro con le altre nazioni (o varie combinazioni dell’una e dell’altra idea) c’è un abisso morale e politico.
Pertanto come sarebbe cattiva storiografia presentare il Risorgimento quale trionfo dell’ideale del patriottismo nel suo significato più puro, così è altrettanto cattiva storia presentare il Risorgimento come un ulteriore esempio di nazionalismo. Come ha sottolineato Paul Ginsborg nel suo ultimo lavoro (Salviamo l’Italia), per capire il nostro Risorgimento è fondamentale tenere presente la distinzione fra nazionalismo e patriottismo e riconoscere che l’ideale etico e politico distintivo della nostra emancipazione nazionale è stato quello della “nazione mite”, che non discrimina, ma accoglie e rispetta le altre patrie.
Questa idea di patria è stata un punto di riferimento ideale nell’antifascismo italiano, soprattutto nei dirigenti e nei militanti di ‘Giustizia e Libertà’.
Ora i teorici del nazionalismo, anche quando cercavano di assimilare la tradizione risorgimentale, riconoscevano che la loro idea di nazione era incompatibile con quella mazziniana. Chi invece aveva capito bene il Risorgimento e voleva tenerne in vita gli ideali, detestava il nazionalismo.
Il nazionalismo fascista ha incoraggiato le guerre coloniali di sterminio, il razzismo e l’invasione della Francia e della Grecia, due nazioni per le quali avevano combattuto i patrioti del Risorgimento; il patriottismo sostenne invece e diede contenuto etico e politico all’opposizione più intransigente al regime, come quella di Carlo Rosselli, che teorizzò la rivoluzione antifascista come un dovere patriottico o quella di Calamandrei, che nell’aprile del 1940 annotava nel suo diario: “gli inglesi e i francesi e i norvegesi che difendono la libertà, sono ora la mia patria”.
Se dalla storia passiamo alla riflessione politica e ci chiediamo se questa idea di patria e di amor di patria abbia ancora valore come ideale normativo ed educativo, rispondo che senza di essa non può esserci rinascita civile. Intendo per rinascita civile la riscoperta – da parte dell’élite politica e di un buon numero di cittadini – del senso del dovere, il rispetto della legalità, delle differenze, la cura della memoria storica e, in particolare, la volontà di far vivere in ogni atto quotidiano i principi fondanti della Costituzione. E quale luogo è più adatto della scuola pubblica per poter far crescere cittadini consapevoli e rispettosi dei valori costituzionali?
Ecco dunque che non possiamo non stigmatizzare l’avvilente attacco alla scuola pubblica di questi giorni. Insieme alle migliaia di insegnanti che ogni giorno lavorano con passione, onestà intellettuale, slancio civile, mi sento in dovere di ricordare che proprio la scuola pubblica, quella della Costituzione Repubblicana, ha costruito il valore del senso civico, della storia di un paese rinato, dopo un’epoca di dittatura, con il contributo e il sacrificio di tanti: cattolici, non cattolici, socialisti, comunisti, liberali; della democrazia e della tolleranza, del valore non dell’individuo ma della società tutta, di uno Stato Sociale per tutti e a garanzia di tutti.
Sono anni che sul corpo insegnante della scuola pubblica viene gettato fango, investendo con gli schizzi tutto il personale che vi opera; i termini più abusati sono fannulloni, assenteisti, sessantottini, persone che “inculcano ideologie e valori diversi dal quelli della famiglia”.
Noi non abbiamo valori da inculcare se non quelli della Costituzione Italiana, quella nata dalla Resistenza e dalla lotta partigiana al nazifascismo, la cui storia è stata scritta in maniera indelebile e definitiva e nessuno mai riuscirà a manipolare.
Da tempo si bombardano adulti, famiglie ed adolescenti con slogan e azioni che hanno, questi sì, distrutto il valore del rispetto della cosa pubblica e delle sue leggi, della solidarietà e della tolleranza; innescando individualismo, spregio della legalità, valore dell’apparire; messaggi che disincentivano l’istruzione e la ricerca del sapere come se fosse inutile alla persona e al Paese.
Vorrei chiedere a chi ha delicate responsabilità di governo: avete voi valori alternativi da suggerirci? Ci legittimate forse ad insegnare agli studenti il valore dell’insulto a chi lavora? Della bugia? Dello scambio di favori? Della fuga dalle proprie responsabilità?
Sono forse valori da inculcare l’ipocrisia, l’opportunismo, lo sprezzo delle regole? L’immediato soddisfacimento di quello che si vuole. Costi quel che costi, si violi quel che si violi?
E allora, in questa solenne giornata, dobbiamo promettere a noi stessi che non consentiremo più che l’indifferenza e il disinteresse di fronte a quanto accade si allarghi. E per renderci consapevoli di questo non credo esistano parole più belle e significative di quelle di Antonio Gramsci che scriveva:
“Tra l’assenteismo e l’indifferenza poche mani, non sorvegliate da alcun controllo, tessono la tela della vita collettiva, e la massa ignora, perché non se ne preoccupa; e allora sembra sia la fatalità a travolgere tutto e tutti, sembra che la storia non sia altro che un enorme fenomeno naturale, un’eruzione, un terremoto del quale rimangono vittime tutti, chi ha voluto e chi non ha voluto, chi sapeva e chi non sapeva, chi era stato attivo e chi indifferente”.
Sono parole che dovremmo fare nostre ogni giorno, all’interno delle nostre scuole, nei luoghi di lavoro, rendendole vive con l’esempio della nostra passione civile. Chi ci chiede di ricordare nello stesso modo chi è morto per la libertà e chi è morto combattendo contro la libertà ci chiede in realtà di diventare moralmente poveri. Chi esprime fastidio verso la nostra Resistenza, chi invita a dimenticarla come un peso ingombrante del passato vuole seccare le radici della nostra vita democratica; non offende i morti, offende noi in quanto cittadini e in quanto esseri umani.